I cinema nelle città di fondazione in Italia e in Africa
di Cristina Chinetti

Nell’ultima Biennale di Architettura di Venezia, chiusasi lo scorso 26 novembre, imbattersi in un progetto che riguardasse gli spazi specificatamente dedicati alla fruizione del cinema era impresa piuttosto ardua. Ma uno dei rari spunti era presente proprio in DAAR - Alessandro Petti e Sandi Hilal, premiato dalla Giuria internazionale con il Leone d’Oro per la migliore partecipazione alla 18a Mostra The Laboratory of the Future. (1)

Si tratta del progetto “Ente di Decolonizzazione – Borgo RIZZA”, ultima tappa di un vasto e pluriennale programma di ricerca multimediale e collettiva, portato avanti dai due artisti che vivono e lavorano a Stoccolma.

Petti e Hilal si sono proposti di studiare le ricorrenti architetture coloniali, fasciste e moderniste, spaziando dalle colonie agricole costruite dal regime fascista negli anni ’30 sulle coste libiche, a quelle dell’Africa orientale, come Asmara e Addis Abeba, e ai villaggi rurali del sud Italia, esplorando “la possibilità di riuso critico e sovversione dell’architettura coloniale fascista attraverso un’installazione artistica”.

L'installazione, presentata alle Corderie dell’Arsenale di Venezia, riguarda proprio uno di quegli insediamenti rurali, Borgo Rizza appunto, nei pressi di Carlentini (Siracusa), voluti dal regime fascista per la modernizzazione agricola dell’Isola e costruiti a partire dal 1940 dall’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano.

Essa si compone di due parti: una è costituita da diversi moduli-sedute di color mattone, ricavati dalla scomposizione e ricomposizione in orizzontale della facciata dell’edificio che a Borgo Rizza ospitava l'Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano, riutilizzati come piattaforma di uno spazio discorsivo aperto e pubblico (2); e l’altra da un filmato in cui scorrono le immagini del Borgo e dei suoi edifici, per lo più fatiscenti, tranne alcuni ristrutturati nella prima decade del 2000, talvolta incrociate con fotografie di altre città di fondazione e/o coloniali.

In una schermata compare la planimetria del cinema Odeon di Asmara, relativa probabilmente al primo progetto del 1937 a firma di Giuseppe Zacchè e Giuseppe Borziani, per quanto il progetto effettivamente portato a compimento due anni dopo sarà quello del professore di disegno Luigi Saltelli in collaborazione con l’architetto Ettore Beltrame e l’ingegnere Mario Cabassi. L’Odeon di via Sapeto ad Asmara, inaugurato il 14 marzo 1939, è uno dei tanti cinema disseminati nelle colonie dal governo fascista come strumenti per rafforzare il consenso e organizzare la propaganda del regime.

In effetti, tutte le città coloniali, anche i centri minori, erano caratterizzati dagli stessi principi urbanistico-architettonici: una grande piazza principale sulla quale affacciavano gli edifici che ospitavano le istituzioni statali, fasciste o religiose, quali la casa del fascio, il palazzo del municipio, la chiesa, la scuola, la caserma della milizia, l’ufficio postale, il dopolavoro, e quasi mai mancavano di un cinematografo. In Libia già nel 1913-15 si contano due cinema a Tripoli e uno a Bengasi e nei centri meno popolosi erano presenti sale per proiezioni e per spettacoli d’altro tipo nelle sedi del Partito Fascista e soprattutto dell’Opera Nazionale del Dopolavoro.

Anche nel centro nella prima città di fondazione italiana, Littoria (oggi Latina), costruita nel 1932, trovò posto un cinema ed è proprio negli anni Trenta, e soprattutto dopo la proclamazione dell’Impero nel 1936, che anche nelle colonie d’oltremare si moltiplicano le sale cinematografiche, opera per lo più di imprenditori privati.

Nella cosiddetta Africa Orientale Italiana nel 1939 si contavano complessivamente 55 grandi cinematografi a disposizione dei nazionali, cioè degli italiani, per un totale di circa 40.000 posti. Per esempio, ad Asmara si trovavano ben 11 sale cinematografiche, di cui le più importanti erano l’Impero con ben 2.300 posti, l’Augustus con 2.000 e il già citato Odeon con 1.880 posti a sedere, 7 ad Addis Abeba e altrettante a Mogadiscio. In questi cinema “per bianchi” si proiettavano anche film nuovissimi, e molto spesso prima che essi venissero presentati a Roma, che comportavano costi dei biglietti ben superiori a quelli delle pellicole ritenute più adatte per le popolazioni indigene, considerate un pubblico a parte da assoggettare a un'azione di acculturazione attraverso documentari celebrativi della forza economica e militare della potenza colonizzatrice.

Un regio decreto del 24 agosto 1939, p.es., provvedeva ad imporre l’obbligo per gli esercenti di cinematografi nell’Africa Italiana di comprendere nel programma degli spettacoli la proiezione di pellicole a scopo di educazione civile, di propaganda nazionale e di cultura varia, pena la revoca della licenza; e l’art. 2 dello stesso decreto prevedeva che le pellicole fossero “fornite alle condizioni […] determinate con provvedimento del Ministro per l’Africa Italiana, dall’Istituto nazionale “Luce” dal quale gli esercenti a loro cura e spese dovranno tempestivamente ritirarle”.

Diversamente da quanto messo in atto nei decenni precedenti dal regime nelle colonie della Libia, dove ci si era orientati a riconoscere alle popolazioni autoctone la cittadinanza e un trattamento sostanzialmente pari a quello dei nazionali, in Africa il regime perseguì una rigorosa logica di separazione tra coloni e autoctoni, "in omaggio all'igiene e al prestigio", attuando una vera e propria politica di apartheid. Gli indigeni potevano frequentare solo i cinema a loro riservati, come il cinema all’aperto Benadir inaugurato a Mogadiscio il 13 febbraio 1939, con proiezioni ad essi dedicate.

Per scoraggiare poi ogni promiscuità, una legge sempre del 1939 imponeva al "cittadino italiano metropolitano di razza ariana" il divieto d'accesso alle sale destinate esclusivamente ai nativi e stabiliva (all'articolo 12) che "Il cittadino che, nei territori dell'Africa Italiana, frequenti abitualmente luoghi aperti al pubblico riservati ai nativi, è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a lire duemila". (3)

Dal punto di vista architettonico questi cinematografi coloniali non erano molto diversi da quelli coevi in patria né particolarmente innovativi, anche se alcuni erano squisitamente moderni e degni di apparire nelle più grandi città metropolitane.

Significativo è il caso della capitale eritrea Asmara, trasformatasi in conseguenza della sua funzione di centro nevralgico delle retrovie durante il conflitto etiopico del 1935-36, da “polverosa e misera capitale della nostra gloriosissima colonia primogenita” a “moderna, progredita ed industriosa città di circa centomila abitanti”, come scrive Eugenio De Spuches (4) che assume le nuove costruzioni di cinematografi come emblematiche del rinnovamento architettonico cittadino.

Nel suo articolo del 1939 egli afferma che “Governo, Municipio e privati hanno gareggiato fra loro, per la costruzione di opere edili imponenti, sia per mole, che per il valore architettonico; il cinema teatro Impero, il cinema teatro Odeon, il cinema teatro Excelsior, il cinema teatro Augustus possono benissimo tenere il confronto con i maggiori locali delle più grandi città italiane”.

Questi quattro cinema, infatti, progettati tutti al 1937 e tutti adibiti alla duplice funzione di sale per proiezioni e per spettacoli teatrali, si distinguono per l’inconsueta qualità dei progetti, attenti a cogliere spunti dalla produzione internazionale per rielaborarli in maniera originale, per la scelta dei materiali e la cura del disegno degli arredi e degli apparati decorativi.

Nell’Odeon, p. es., tra le altre raffinate soluzioni costruttive e ornamentali, negli interni è di particolare interesse il design degli arredi del bar nell’atrio d’ingresso, ancor oggi ben conservati e improntato ad un Art Déco d’ascendenza statunitense nelle sue forme meccaniche arrotondate.

Un ponte diretto tra Asmara e addirittura la capitale dell’Italietta mussoliniana è stabilito dal cinema Impero in viale Mussolini, uno degli edifici simbolo della città eritrea. Il faraonico progetto originale del 1937, poi ridimensionato in fase di esecuzione nel 1938, era dell’architetto Mario Messina, che contemporaneamente costruiva a Roma in via dell’Acqua Bullicante a Tor Pignattara un altro cinema Impero del tutto somigliante, nelle linee dritte e razionali e nel disegno delle facciate, di color porpora ad Asmara e in laterizio a Roma, accomunate dalle scritte laterali in verticale a lettere cubitali e dagli elementi orizzontali delle finestre, più eleganti e in stile déco le quattro finestrelle a nastro alternate a file di lampade emisferiche in cornici circolari di Asmara rispetto a quelle romane.

E mentre il cinema di Asmara è ancora in funzione, l’Impero, che era la terza sala più grande mai realizzata a Roma e ha attraversato l’età d’oro del cinema italiano, quella del neorealismo e delle grandi produzioni, ha cessato l’attività dagli anni ’70 e ha subito un progressivo degrado, anche se nell’ ultimo decennio ci si è mossi in direzione di un recupero della struttura, in cui ha trovato sede la scuola di teatro Stap Brancaccio. Ma questa è un’altra storia.

Come già ricordato, su Asmara e Addis Abeba come casi di studio per la riappropriazione dell’eredità coloniale fascista si è incentrato nel 2019 il terzo capitolo della ricerca di Alessandro Petti e Sandi Hilal, il cui lavoro più recente ci ha suggerito questa piccola divagazione nella storia.

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> (1) Motivazione del premio: “per il loro impegno di lunga data teso a un profondo coinvolgimento politico con pratiche architettoniche e di apprendimento della decolonizzazione in Palestina e in Europa”.

> (2) che costituiscono “uno spazio discorsivo aperto, dove il pubblico è invitato a riconsiderare criticamente l’effetto sociale, politico ed economico dell’eredità fascista e coloniale e allo stesso tempo è invitato a immaginare collettivamente nuovi usi comuni”.

> (3) E. Godoli, “L'architettura dei cinema nelle colonie italiane” in Opus Incertum, anno I, n. 2, 2006. Polistampa, Firenze, pp. 100-111.

> (4) E. De Spuches, Asmara città imperiale all’inizio dell’Anno XVIII, “L’Azione Coloniale”, X, 1939, 16 novembre, p. 1.


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